Oggi avrebbe 55 anni, lui, ribattezzato” come portavoce della Generazione X, quella che si faceva carico di sentire l’agonia di appartenere ad una terra di mezzo ,con la mancanza di un senso di scopo e di un ideale da rincorrere. Quella che, per dirla con l’interpretazione dei più illustri conoscitori e sociologi del tempo, parlava di un sentimento diffuso di disillusione, la traccia indelebile di un’ anima più che di un movimento storico – culturale.
Parliamo di Kurt Cobain , il frontman dei Nirvana, morto suicida a soli 27 anni dopo una vita tormentata e angosciata.
Uno dei nomi che ha segnato non poco la cornice Rock degli anni ’90 e che la storia musicale ha ribattezzato in tantissimi modi:
– poeta maledetto
– anima controversa
– rockstar antisociale
-anima cupa e tormentata
Io non lo definirò in nessuno di questi modi. Forse perchè mi sembrerebbe di fargli torto o forse perchè nel totalitarismo della definizione mi ci sono persa così tanto che mi è mancato il respiro. Per esempio, me lo ricordo ancora quando tanti anni fa, vedendo una sua video intervista su un canale rock, lui dichiarava di sentirsi schiacciato da quella popolarità che oltre a tanta visibilità e venerazione e era sempre pronta a sfoderare la prossima etichetta: “piangnone incompreso”, ” disturbato”, ” viziato”.
KURT e LE FERITE MAI VISTE DEL BAMBINO E L’ADOLESCENTE
Che bambino è stato Kurt prima di raccontare la sua immensa disperazione e la sua rabbia nelle sue canzoni?
Uno sguardo all’infanzia di Kurt, ( infanzia, tengo a precisare, trasmessa dalle sue stesse dichiarazioni e testi musicali) aiuta non poco a delineare i contorni di quest’Anima dalle qualità straordinarie compresse sotto quintali di piombo di false identificazioni, di ferite mai veramente ricucite, di traumi urlati nella poesia straziante dai timbri bellicosi e dai suoni decisamente arrabbiati, carichi del senso di frustrazione e dell’alienazione giovanile di un’intera epoca.
Nato in una piccola città nello stato di Washington da una famiglia molto umile , padre meccanico dall’animo molto sensibile e madre casalinga dalla tempra forte e avvezza a prendere le decisioni più importanti in seno al nucleo famigliare, dimostra sin dalla tenera età di essere un bambino fin troppo sensibile all’arte. Un talento inizialmente espresso attraverso le arti visive (frequentò una scuola superiore artistica) e successivamente nel songwriting.
Particolarmente vivace ed euforizzato da una grande tensione artistica (a soli quattro anni studia pianoforte e a sette anni incontra il suo grande amore, la chitarra elettrica) e dalle condizioni di salute non sempre ottimali, si misura sin da piccolo con il farmaco dalla fama sinistra, il Ritalin, che gli viene dato con il proposito di placare la sua iperattività.
Non è certo un mistero che il Ritalin, tuttora somministrato ai bambini allo scopo di tranquillizzarli, ha effetti sul cervello più potenti di quelli della cocaina. Grazie ad una tecnica usata per registrare immagini e che pare possa rappresentare fedelmente le variazioni dell’attività neurale regionale – il “brain imaging”- alcuni scienziati hanno scoperto la responsabilità del farmaco nel saturare i neurotrasmettitori responsabili dell’ ”euforia” avendo effetti terribili sulla personalità, soprattutto quando assunto in giovane età.
Ad otto anni, nel 1975, i genitori divorziarono, creando una ferita profondissima ed insanabile nella vita di un ragazzino che ben presto cede la sua espansività e giovialità ad una grandissima chiusura e pesante depressione. Un evento destinato ad avere un peso specifico quanto a dolore psicologico ed essere trasferito nella sua musica come tema quasi dominante.
Da quel fatidico momento, per ben dieci anni, vive tra la casa di suo padre e quella di sua madre, tra continui litigi, atti di ribellione ed un astio radicato per una condizione che non riusciva in nessun modo ad accettare.
Kurt, voleva solo essere amato.
Decide così di andar via di casa e il suo nomadismo è segnato dalla difficoltà di interagire con gli altri : sempre più introverso e troppo brillante per la media dei suoi coetanei invischiati dal consumismo e dalla TV spazzatura, veniva spesso preso di mira , allontanato ed emarginato.
Ad ingigantire queste distanze il rapporto di amicizia che strinse a scuola con un ragazzo dichiaratamente omosessuale. Conoscere la storia e il tormento legato a questo tema gli aprì un mondo e ben presto la critica al sessismo, al razzismo e all’omofobia fu per l’adolescente Kurt motivo di impugnare una vera e propria fiamma di rivolta, tant’è che nel 1986 fu arrestato per la prima volta con l’accusa di vandalismo per aver scritto su alcuni muri di Aberdeen “HOMOSEX RULES” e “GOD IS GAY”.
Temi che si conserveranno preziosi anche una volta sbocciato a rockstar.
Infatti, più tardi, i Nirvana parteciperanno a molti concerti in favore dei diritti degli omosessuali e i testi delle loro canzoni appoggeranno sempre questa ideologia.
L’interesse di Kurt Cobain a queste e molte altre piaghe morali della società riflettevano lo slancio di un’ anima particolarmente sensibile ed empatica che non riusciva a trovare casa in se stesso.
Non a caso “Smells like Teen Spirit” divenne l’inno della generazione grunge ed altre canzoni del loro album più famoso “Nevermind” rappresentano un continuo riferimento al “male di vivere”, all’inutilità di una vita alienante. “Come as you are”, “In Bloom”, “Lithium”, “Polly”: tutti attacchi diretti al potere e al disagio giovanile. Sono tutte firmate Kurt Cobain.
IL RICORSO ALLE DROGHE CHIMICHE ED EMOTIVE
Non furono pochi i dolori che caratterizzarono la vita di Kurt Cobain. Sin dai traumi dell’infanzia dovette convivere con depressione, disturbo bipolare, contrazioni perenni allo stomaco e bronchite cronica.
Il suo viaggio nel mondo della droga inizia così, con il proposito di tentare di alleviare il suo malessere.
Nel 1990, Cobain, conobbe in un nightclub, la cantante Courtney Love e nel giro di un anno, i due, iniziarono una relazione malata ed instabile, segnata dall’uso di droghe (in particolare di eroina), panico e dirompente passione.

Kurt Cobain e sua moglie Courtney Love
I Nirvana : dietro un Nome una chiave di lettura
Quando la Love scoprì di essere incinta, Kurt ebbe la sua prima overdose e, per amore della futura figlia e del suo rapporto, avviò un lungo processo di disintossicazione che però non lo salvò da una fine disastrosa: il suicidio, vissuto come l’unica vera liberazione da una realtà di stenti e sofferenza: il Nirvana, così come lo aveva prefigurato nel suo animo terribilmente addolorato e che però nulla ha a che fare il fine ultimo della vita, lo stato in cui si ottiene la liberazione dal dolore ( e per chi sente nel cuore la verità della reincarnazione non occorre aggiungere altro).
L’illusione di aver messo per sempre fine al dolore
Nelle sue esperienze di vita da strada, Kurt Cobain, si avvicinò molto alle filosofie spirituali orientali, tra cui il gianismo ed il buddismo come fece il leggendario Jim Morrison ( e non solo), morto come lui alla sua stessa età e per un male di vivere decisamente affine.
É proprio dal pensiero buddista che eredita il nome della band fondata con l’ormai amico e bassista Novoselic e che consacrò per sempre il suo nome nella rosa delle più grandi rockstar di sempre: i Nirvana.
Come raccontò in una intervista su Rolling Stone, Kurt, scelse questo nome per il senso stesso del termine, vale a dire la «la libertà dal dolore del mondo esterno» che, in sostanza, era quello che il punk rock aveva sempre avuto come fine ultimo, solo con mezzi diversi, più tendenti allo stravolgimento delle regole ed alla ribellione dai canoni di una società fredda e falsa.
E proprio questo furono i Nirvana per i ragazzi di inizio anni 90: una luce sulla realtà del tempo, ma dalle corde vocali nervose, tese come corde di violino , a tratti nevrotiche conseguenza di quel senso di inadeguatezza alla macchina immorale del mondo.
L’USCITA DI SCENA DAL DOLORE DEL MONDO: L’EFFETTO WERTHER
Oltre al fucile, vicino al corpo di Cobain, fu trovata una lettera con cui la Rockstar consegnò sulla carta il suo addio al mondo. Un artificio questo, già caro alle più alte forme di letteratura.
Pensiamo a “I dolori del giovane Werther” di Johann Wolfgang Goethe o a le “Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo che sembrano raccontare, sotto il velo del romanticismo dell’epoca e con tratti romanzati, la storia e il triste epilogo epilogo di Kurt Cobain.
Con “effetto Werther” in psicologia si intende il fenomeno per cui la notizia di un suicidio pubblicata sui mezzi di comunicazione di massa (giornali, televisioni, web, social) provoca nella società una catena di altri suicidi. In lingua inglese si parla di “Werther effect” o “copycat suicide“, che significa “suicidio imitatore”.
Se già i due scrittori di fine 700 vengono spesso accostati tra loro è possibile notare un fine parallelismo anche soltanto nella forma , tra la storia dei personaggi nei rispettivi romanzi epistolari e la delicata narrazione del chitarrista dei Nirvana.
Molto interessante infatti è notare che ad essere in connessione tra loro non sono solo i pezzi di un puzzle fatto di afflizioni, angoscia esistenziale, aspetti luce ed ombra dell’anima, la commistione delicatissima tra arte e vita, ma anche l‘ opera di denuncia e di frustrazione di un’epoca di cui i personaggi si fanno canale ( per quanto con modalità completamente diverse e non potrebbe essere altrimenti) intrecciando la loro sorte comune di anime suicida alla firma di un fato avverso , segnato dall’avversione tormentata verso la società e un dolore angosciante e per la condizione del genere umano.
Uno Sturm und Drang che in realtà, riproponendosi indenne fino ai nostri giorni ha incluso nel “girone dei dannati” Kurt Cobain come ultimo solo in ordine temporale: prima di lui è toccato ai vari Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janet Joplin, Brian Jones.
Voglio lasciarvi con un estratto, quello che più mi ha colpito della sua lettera d’addio in cui è perentoria la vocazione d’autenticità di chi non riuscendo più a provare emozioni, nutrimento e fonte della sua scrittura, preferisce “togliersi dalla scena” piuttosto che prendere in giro il suo pubblico ma lo fa compiendo la più alta forma di tradimento a sè stesso: stroncare troppo presto e malamente, l’estro e l’ingegno che è venuto a manifestare.
Sono parole da cui traspare tantissima agonia, e fa riflettere che questo accada proprio nei mesi in cui il gruppo raggiunge l’apice del successo consacrando il chitarrista a leggenda del Grunge.
Io non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole. Per esempio, quando siamo nel backstage e le luci si spengono e sento il maniacale urlo della folla cominciare, non ha nessun effetto su di me, non è come era per Freddie Mercury, a lui la folla lo inebriava, ne ritraeva energia e io l’ho sempre invidiato per questo, ma per me non è così. Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti né nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di fingere e far credere che io mi stia divertendo al 100%. A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco. Ho provato tutto quello che è in mio potere per apprezzare questo (e l’apprezzo, Dio mi sia testimone che l’apprezzo, ma non è abbastanza).
Ho apprezzato il fatto che io e gli altri abbiamo colpito e intrattenuto tutta questa gente. Ma devo essere uno di quei narcisisti che apprezzano le cose solo quando non ci sono più. Io sono troppo sensibile. Ho bisogno di essere un po’ stordito per ritrovare l’entusiasmo che avevo da bambino. Durante gli ultimi tre nostri tour sono riuscito ad apprezzare molto di più le persone che conoscevo personalmente e i fan della nostra musica, ma ancora non riesco a superare la frustrazione, il senso di colpa e l’empatia che ho per tutti. C’è del buono in ognuno di noi e penso che io amo troppo la gente, così tanto che mi sento troppo fottutamente triste. Il piccolo triste, sensibile, ingrato Pesci, Gesù santo! Perché non ti diverti e basta? Non lo so. Ho una moglie divina che trasuda ambizione ed empatia e una figlia che mi ricorda troppo di quando ero come lei, pieno di amore e gioia. (…)
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In questa lettera Kurt si è messo a nudo con tutti noi. Il tutto si riassume – secondo la mia opinione – in un’unica parola: era un combattente, una persona che non solo non si appiattiva sulle difficoltà, ma ha tentato e riuscito a cambiare molto anche nella musica rock. E l’ energia che ci metteva, talvolta – se non sempre – lo mandava in depressione. Se pensiamo per un istante alla rock star tipica, be’, lui non era così.