Lo scorso weekend sono andata al cinema per vedere l’attesissimo film Jocker diretto da Todd Phillips. Ne sono uscita letteralmente a pezzi.
Due ore e due minuti di sofferenza sulla poltrona della sala, stritolando a più riprese la mano del mio compagno seduto accanto a me.
Ma si è trattato di una tensione creativa, un malessere che non distrugge ma al contrario crea: consapevolezza, apertura di coscienza, risposte elettive.
E credo fosse anche questa, in parte, la vocazione di una pellicola che ai miei occhi ha tutti i connotati di un capolavoro psicosociale. E ti spiego perchè.
In un momento storico in cui del sorriso, -con tanto di be positive-la società tesse bandiera dai comodi cuscini di una poltrona ordinaria e confortevole nel quotidiano della propria esistenza, il sorriso di Arthur Fleck, il comico fallito magistralmente interpretato dall’immenso Joaquin Phoenix, si erge con quel ghigno infausto e soffocato in gola, a rappresentare il disagio e il fallimento di un comparto sociale che nelle sue logiche duali e di separazione ha completamente smarrito se stesso, rincorrendo la forma di una maschera piuttosto che il contenuto, incorniciata in una risata che no, non fa ridere proprio nessuno.
“La risata non rispecchia necessariamente il mio stato d’animo”, è scritto su di un tesserino che il clown porta in tasca.
Una risata spettrale, un crepitio respiratorio che inquadra senza sconti i contorni di una sopravvivenza: quella di un bambino traumatizzato che esprime con la sua schizofrenia, il vuoto incolmabile di un padre totalmente assente e di una madre malata ma che in un disarmante climax emozionale, sperimenta quella disperata e “drammaticamente necessaria” emancipazione criminale con cui inizia ad accorgersi che sì, lui esiste sbattendo in faccia allo spettatore l’angoscioso tema dell’emarginazione sociale del diverso, della malattia, di quel “contenuto esistenziale” con cui proprio ci pesa confrontarci.
Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto. E le persone iniziano a notarlo. Arthur Fleck – The Joker
Una volta uscita dal cinema ammutolita e quasi ermetica in un liturgico silenzio, ho risposto a un messaggio di una cara amica che mi chiedeva cosa pensassi del film e la mia risposta è stata fedelmente questa:
io: ” ne parliamo domani, per ora ti dico che fa male. Di quel male che può sentire nella pancia solo chi conosce il dolore e il rantolo sordo in cui ti schiaccia. Ma non è una pena fine a se stessa: è il preludio della misericordia che dall’aver provato quel dolore nasce come un fiore. E chi semina roba simile fidati, se ne accorge…”
F: ” Dopo le tue parole mi sento divisa a metà. Quasi non so più se andarci ti confesso Flo. Un bacio e buonanotte, a domani” – mi risponde timidamente la mia amica alle 4 del mattino.
La stessa che il giorno dopo mi scrive: ” Flo, è accaduto un sincronismo assurdo che mi ha dato conferma che sì, a vedere quel film devo andarci. Ho voluto cercare in rete qualche commento prima di vedere il film, quasi per avere una spinta e mi imbatto in questo di un celebre attore che ricalca la stessa emozione che hai provato tu:
Per apprezzare Joker credo che si debba aver sperimentato un evento traumatico nella vita (e penso che a molti di noi sia capitato) o aver compreso che cosa sia realmente la compassione (cosa che spesso accade proprio dall’aver sperimentato un evento traumatico, purtroppo). Un esempio di compassione sarebbe fare un film sulla fragilità della psiche umana in modo così crudo, brutale, armonioso che quando esci dal cinema non solo non vuoi far del male a nessuno, ma vuoi disperatamente cercare una risposta e una soluzione alla violenza e ai problemi mentali che sono fuori controllo intorno a noi. Questo film ti fa soffrire e solo sperimentando il dolore vogliamo cambiare. E’ tutto nell’ironia del trauma – quella linea sottile tra il risentimento di voler colpire la società che ti ha precluso un’esistenza decente, che non ti ha protetto, e la dannazione. Come i ragazzini alla scuola superiore, possono essere ferocissimi. Senza alcun motivo. A volte questi orribili ragazzini alimentano nelle vittime rancori che esploderanno molto più tardi, quando tutti credevamo che fossero dimenticati. Abbiamo l’abitudine di odiare, ostracizzare, separare e nascondere i problemi sotto il tappeto. Joker va a sollevare quel tappeto e a guardare sotto. Niente di più. Niente di meno”.
Josh Brolin – attore
Ho letto e ho sorriso di gratitudine perchè sì, queste parole esprimono a chiare lettere il mio pensiero. Credo che Joker sottenda un messaggio preziosissimo :
La vera malattia non è quella del protagonista, ma di un tessuto sociale totalmente incapace di vedere perchè guidato dallo sguardo limitato e limitante dell’ego, della personalità che si muove nell’ostile e sempre più opprimente gabbia della separazione e della dualità, dove “il diverso” viene bandito come pericolo e la maschera dell’apparenza è accolta perchè comoda e confortante.
Un film che dunque non parla solo di corruzione, di violenza fine a se stessa, di separazione che discrimina, di giudizio e individualismo, ma che rigurgita mistificandola con un sorriso che inquieta, la verità più profonda: ci siamo ammalati tutti di MANCANZA D’AMORE.
«Sono io, o tutti gli altri stanno impazzendo?» si chiede Arthur Fleck, mentre consegna i suoi demoni e i suoi problemi a una psicologa che tutto fa meno che autenticamente ascoltarlo.
Lui che ha sempre pensato alla sua vita come una tragedia, accorgendosi solo adesso di quanto invece sia una commedia. Un teatro tragicomico per l’appunto in cui SIAMO TUTTI CLOWN.
Già, quella commedia in cui siamo tutti coinvolti, ciascuno con la sua parte in questo cinedramma dell’esistenza fin quando non ci decidiamo a conquistare quell’unico sguardo che cambia la trama e racconta, perchè la vive, una nuova storia: lo sguardo dell’anima.
Fino a quando leggiamo libri e non entriamo nell’anima non abbiamo alcuna possibilità di vedere l’anima degli altri, ne scorgiamo solo alcuni tratti della personalità. E quando guardiamo attraverso la personalità vediamo negli altri solo quei tratti che sono proiezioni inconsce di ciò che in realtà siamo noi. Non perdoniamo agli altri qualcosa che in realtà non perdoniamo a noi. Odiamo perché in fondo ci odiamo. La Legge dello Specchio regna sovrana, eppure siamo convinti che l’errore sia oggettivamente nell’altro e non in noi. S. Brizzi
Entrare in contatto con l’anima è non solo possibile ma quanto mai necessario per poter iniziare a osservare lucidamente la nostra realtà così da coglierne la bellezza laddove siamo abituati a riconoscere orrore e bruttezza. Ma il regno dell’Anima è accessibile solo da uno spazio d’Amore autentico che sì è proprio quello che abilita la nascita della misericordia, di quella compassione ( cum – patior – soffrire con) che avvicinandoci al cuore di Joker ci porta a sperimentare il sentimento della connessione e dell’unione, accogliendo ed integrando come parti di noi quello che la mente, la personalità e l’ego etichettano come “diverso” frammenti spesso repressi e schiacciai sotto il peso dell’oblio e della noncuranza, del giudizio e dell’abnegazione.
Mentre scrivo queste parole ripenso ad Osho che ha sempre definito la compassione come guaritrice e terapeutica nel suo essere la forma più pura d’Amore.
“Solo la compassione è terapeutica, poiché tutto ciò che nell’essere umano è malato, lo è a causa di una mancanza d’amore. Tutto ciò che non funziona nell’essere umano da qualche parte è associato all’amore: non è stato in grado d’amare o non è riuscito a ricevere amore; non è riuscito a condividere il suo essere. Da qui l’infelicità, ed è questo a creare ogni sorta di complesso interiore. Quelle ferite interiori possono affiorare in molti modi: possono diventare malattie del corpo, possono diventare malattie mentali; in ogni caso, in profondità l’uomo soffre di una mancanza d’amore: come il cibo è necessario al corpo, l’amore è necessario all’anima.
Se non hai amato, non hai mai conosciuto la tua anima.
” Osho
La parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’avessi. Arthur Fleck – The Joker
That’s Life canta la colonna sonora (scelta incredibile nella sua forza evocativa) con l’immensa versione di Sinatra, un vero inno alla resilienza impressa in quel But I don’t let it, let it get me down – “ma io non mi lascio buttare giù”.
Eh no. Non ci facciamo buttar giù. Chè questa non è necessariamente “la vita”, ma solo una parte di commedia che siamo venuti a recitare. Facciamo allora, che ne sia valsa la pena.
In questa vita mi hanno dato il nome di Floriana , sono una Soul Alchemist Mentor e ti aiuto ad estrarre la perla dalla conchiglia di faccende del tuo vissuto. Più precisamente, ti guido nel trasformare il vile piombo della tua vita in Oro Leggi di più.