I bambini lo sanno fare al meglio: giocare ad essere qualcuno che non sono, prima del tempo.

Rubano le scarpe della mamma o del papà, scimmiottano ciò che ai loro occhi s’impone figura di riferimento, l’insegnante o il mister di calcetto, chiunque nel macrocosmo dei “grandi” si mostri al loro sguardo un personaggio perfetto.

Non sono affatto credibili nel mentre lo fanno, ma la purezza dell’intenzione li riconsegna alla loro dimensione: quella di bambini che non hanno da giustificare i loro teatrini.

Ciascuno di essi infatti gli è funzionale a sperimentare ciò che sono chiamati ad essere e fare.

Cosa accade però quando il bambino è cresciuto solo nel corpo ma nei comportamenti esprime gli stessi condizionamenti  appresi e manifestati nell’infanzia?

Voler apparire quello che non siamo non è tuttavia un semplice vezzo, ma un vero e proprio difetto dello sguardo interiore legato ad una falsa percezione di sè che può nascondere disagi anche molto profondi.

La fenomenologia del  falso sé nel funzionamento della personalità adulta è un tema altamente delicato che impone una lente d’ingrandimento sulla fase infantile. 

Non di rado è il mancato riconoscimento della dimensione soggettiva da parte delle figure genitoriali a minare lo sviluppo di un’identità autonoma creando vuoti profondi di autostima e facilitando dinamiche patologiche di strutturazione del falso sè.

Ma cosa si intende per ” falso sè”?

Il termine falso sè viene fatto risalire agli studi sullo sviluppo affettivo dello psicanalista Donald Winnicott – e si riferisce ad  una modalità patologica di sviluppo identitario che si crea nella prima fase infantile allorquando  il bambino cresce accondiscendendo le richieste altrui e radicando in questo la misura della sua identità  in quanto non trova nella madre un adeguato rispecchiamento di sogni, attenzioni, bisogni e desideri.

In altri casi, fuori dalla patologia, si tratta semplicemente di vuoto d’autostima, anch’esso senza dubbio riconducibile all’infanzia. 

Crescendo e approssimandosi all’adolescenza i giochi di finzione e recita dei ruoli diventano sempre più ingombranti fino a cristallizzare l’individuo nella “forma “, nell’involucro, nella cornice in cui si è relegata la percezione di sè con il rischio di restarne ingabbiati.

Le maschere, nate a protezione dell’interiorità percepita come vulnerabile diventano una sorta di prolungamento di sè che inibisce, drasticamente, il contatto con la propria essenza, la nostra parte più autentica.

 

Si tratta di una fase della vita estremamente delicata e caratterizzata da domande quali :

  • chi sono? Come appaio all’esterno? Cosa si potrebbe pensare di me? Come posso piacere di più?

La moda e i suoi canoni imposti, il ruolo professionale, il diktat dello status quo, i dogmi societari e l’ambiente di riferimento si agganciano perfettamente a questo estremo bisogno di riconoscimento legittimando l’adesione di una maschera collettiva traducibile nel comune ” è così che si fa se vuoi che funzioni/sembrare migliore/vincente” e molto altro.

Ma c’è un aspetto ancor più subdolo che molto poco viene indagato:  se le maschere “aiutano” a mistificare ciò che si crede di essere, cosa accade quando alla domanda – chi sono io non si sa minimamente cosa rispondere?

Lo sforzo di apparire ciò che non si è misura la distanza dal tuo sè, dal contatto più intimo con la tua parte pi

 

 

 

 

 

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